LOMBALGIA CRONICA PRIMARIA 

Le lombalgie rappresentano la causa primaria di disabilità a livello globale. Interessano, ad oggi, circa 1 persona su 13, con una preferenza per le persone di sesso femminile e i soggetti di età avanzata, ed è previsto un ulteriore aumento della loro incidenza nei prossimi 25 anni.

L’impatto personale e a livello di comunità e i costi ad esse associate sono particolarmente alti nei soggetti che manifestano sintomi persistenti. 

Le lombalgia, infatti, impattano sulla qualità di vita e sono associate a comorbidità e aumentato rischio di morte. 

Gli individui con lombalgia cronica, specialmente se più anziani, sono più soggetti al rischio di povertà, fuoriuscita anticipata dal mondo del lavoro e minor accumulo di ricchezza per affrontare l’età della pensione. Al contempo, le persone anziane sono più a rischio di incorrere in eventi avversi a seguito di eventuali interventi.

L’Associazione mondiale per lo studio del dolore (IASP) definisce ‘lombagia cronica primaria’ (precedentemente nota come ‘lombalgia cronica aspecifica’) “un dolore che persiste o ricorre per almeno 3 mesi, associato a sofferenza emotiva e/o disabilità funzionale e a sintomi non spiegabili con altre etichette diagnostiche quali danni tessutali o processi patologici”(Nicholas et al. 2019).

L’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) ha da poco rilasciato le prime linee guida per la gestione del mal di schiena cronico primario (chronic primary low back pain), specificando quali approcci terapeutici siano consigliabili e quali vadano evitati.

Le linee guida definiscono i principi chiave della gestione delle lombalgie croniche primarie, raccomandando che sia olistica, centrata sulla persona, equa, non stigmatizzante, non discriminatoria, integrata e coordinata, rivolta al mix di fattori fisici, psicologici e sociali che caratterizzano la condizione e personalizzata. 

In pratica, alcuni soggetti con lombalgia cronica primaria potrebbero necessitare di un approccio multimodale gestito da un team multidisciplinare, piuttosto che di un singolo intervento isolato.

Le indicazioni fornite propendono per interventi terapeutici non chirurgici quali: programmi di educazione che favoriscano la conoscenza e consapevolezza delle caratteristiche della condizione, della sua prognosi generalmente benigna, seppur in presenza di possibili temporanee riacutizzazioni, delle possibili strategie di auto-gestione e dell’importanza di rimanere fisicamente attivi; programmi di esercizi terapeutici strutturati e personalizzati; approcci fisioterapici quali terapia manuale (manipolazioni, mobilizzazioni e massagg)i; terapie psicologiche quali la terapia cognitivo-comportamentale e l’assunzione di farmaci antinfiammatori non steroidi (FANS).

Al contrario, si consiglia di evitare completamente o quantomeno somministrare con estrema cautela interventi quali: bustini lombari, cinture e/o supporti, trazioni vertebrali, farmaci antidolorifici oppioidi. 

Alla luce degli approcci suggeriti, in cui la fanno da padrone l’esercizio terapeutico e l’educazione al dolore (cardini della fisioterapia moderna), pur nel rispetto della multidisciplinarità di gestione auspicata, appare chiaro il ruolo di grande importanza rivestito del fisioterapista.

Per approfondire: https://www.who.int/publications/i/item/9789240081789

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